Je ne regrette rien (non mi pento di nulla)

I legami fra le donne sono i più temuti, i più complessi e rappresentano la forza trasformatrice del pianeta. (Adrienne Reich)

Della mia infanzia trattengo pochi ricordi, ma se chiudo gli occhi, passeggio nel bosco delle mie reminiscenze, fra la nebbiolina autunnale che si posa lievemente sulle frasche e sui rami, un ricordo emerge e, come un raggio di sole, illumina il paesaggio e attira la mia attenzione.

Si tratta di una signora minuta, mani sottili, capelli grigi raccolti in uno chignon, occhi color ghiaccio che spiccano in mezzo al viso rugoso e lo sguardo penetrante: la mia bisnonna Sara.

Ricordo l’irritazione che mi causava l’obbligo di passare a salutarla ogni volta che andavamo a far visita ai nonni.

La scala che portava al suo appartamento, per le mie gambettine, era lunga ed io non vedevo l’ora di fuggire dal suo sguardo austero, per giocare in giardino, per cui, mi avvicinavo a lei, le davo un bacio, la salutavo e poi scappavo via.

Allora non mi rendevo conto di avere l’onore di far visita ad una donna estremamente coraggiosa ed incurante degli stereotipi della società.

Se avessi la possibilità ora, da donna adulta, trascorrerei giornate a carpire la sua dignità e fierezza.

Fortunatamente la sua storia e la sua essenza sono sopravvissute grazie ai racconti, le azioni delle sue discendenti femmine e all’eredità genetica che la donnina, tutta ossa e grinta, ha trasmesso alle donne che hanno fatto parte e fanno parte della sua discendenza.

Di lei conservo l’atto di nascita che rileggo per entrare in contatto con il mondo a cui apparteneva e al quale si è ribellata.

La mia bisnonna nasceva 3 luglio 1887 a Neuilly-sur.-Seine, quartiere aristocratico di Parigi, dove il padre possedeva un albergo.

Sul suo certificato di nascita sono indicati i suoi quattro nomi: Aimée, Sara, Léontine e Josephine e i suoi cognomi Vernaz Duperrier-Gros-Jean.

I suoi quattro nomi e i suoi cognomi mi hanno sempre richiamata l’idea della maestosità intrinseca in lei, celata dall’apparente fragilità fisica.

Viveva in un contesto agiato, orfana di madre. La matrigna aveva delegato la sua educazione ed istruzione ad un austero e conservatore collegio parigino fino alla conclusione degli studi.

Sara è nata in contesto storico denso di creatività: la “Belle époque” . I fratelli Lumière inventano il cinema, si afferma l’impressionismo, e Montmartre, poco distanza da casa sua, apre i battenti del “Mulin Rouge” , “Le chat Noir” e “Folies Bergère” .

In quel periodo Sara è amica del giovane Modigliani che le offre uno dei suoi quadri in regalo, ma l’austera ragazza rifiuta perché crede che la vendita possa fruttargli dei soldi.

La piccola ed intrepida Sara respira tutti i giorni il rinnovamento e la fiducia verso il progresso e, nonostante l’educazione ferrea del collegio, decide di sfidare le convenzioni.

Conosce Benvenuto, detto “Benny” , un giovane brillante italiano, squattrinato, considerato l’uomo più bello di Parigi e se ne innamora.

Nessuno sa cosa abbia spinto la mia bisnonna dagli occhi di ghiaccio ad innamorarsi di lui, fuggito alla miseria italiana in cerca di fortuna.

Ipotizzo che l’aria bohemienne l’abbia spinta fra le braccia del mio bisnonno sfidando qualsiasi convenzione.

Sara “l’aristocratica” concepisce due figli con Benny “il filibustiere” , senza aver contratto matrimonio.

La scelta le costa cara, viene cacciata da casa e diseredata. Vive con Benny e i figli nel peccato e senza un soldo.

Quando i genitori di lui vengono a conoscenza di quanto sta accadendo, “invitano caldamente” il figlio a regolarizzare la convivenza.

Il 6 agosto 1912 si celebra il matrimonio e successivamente la famiglia si trasferisce a Lugano, dove uno zio di Benny possiede un caffè letterario nel centro della cittadina che gode il soprannome di “piccola Parigi” .

Il caffè è frequentato da numerosi artisti fra i quali incontra anche Antonio Ligabue e Giovanni Pascoli.

Quando ricordava quel periodo i suoi occhi perdevano il grigio ghiaccio illuminandosi come l’acquamarina.

La piccola Parigi le aveva dato l’illusione di un ritorno alla normalità. Nel 1915 nasce mia nonna e poi mio zio.

Benny è un’anima inquieta e, nonostante la possibilità di ereditare uno dei locali più famosi ed apprezzati di Lugano, decide di imbarcarsi su un bastimento per raggiungere New York dove rimarrà per 17 lunghi anni.

Sara resta sola ad accudire i quattro figli. La prima guerra mondiale non è ancora conclusa. Lascia la piccola Parigi per trasferirsi in un paesino del lago di Como dove vivono i suoceri.

Per mantenere la prole lava e stira i panni per le famiglie benestanti del comasco.

Mai una lacrima, un cenno di rabbia, non una recriminazione per aver dato ascolto al cuore.

La sua fierezza trasuda da tutti i pori e neppure nelle occasioni in cui avrebbe potuto semplificarsi la vita scende a compromessi.

Nel periodo di “latitanza” del consorte, viene avvicinata da un uomo benestante, che, sapendo le sue difficoltà, e attratto dal fascino della parigina (a quel tempo le donne “esotiche” erano le francesi) inizia una corte serrata.

La mia nonnina, disgustata dal comportamento, lo respinge gelandolo con una frase che è passata alla storia fra noi donne: “Se avessi voluto fare quel mestiere, sarei rimasta a Parigi” .

Gli anni passano, i figli crescono, la primogenita si sposa con un ricco commerciante di salumi e si trasferisce a Como.

Nei mesi estivi la figlia e il genero trascorrono le vacanze ospiti dalla mia bisnonna. Sebbene lei non nutra grande stima per il genero, li ospita e prepara pranzo e cena per tutti; finché un giorno le giunge all’orecchio che il genero afferma di mantenerla.

Non una scenata, nessun oggetto volante per la casa, da quel giorno, la mia nonnina non accetta neppure un pezzetto di pane da loro.

Ospita i due, cucina per loro e compra per sé le vettovaglie.

Si giustificava dicendo “je pardonne, ma non dimentique!” (con gli anni aveva perso la dimestichezza con il francese, ma non aveva imparato l’italiano, per cui parlava una lingua tutta sua, mista di parole francesi, italiane ed inflessioni dialettali delle due lingue).

Una reazione simile la ebbe al rientro dal marito, nel 1947, dalla sua avventura newyorkese. Lo accolse a casa, ma mai accettò qualcosa da lui e mai si sedette al tavolo con lui.

Sara ha trasmesso a sua figlia Anna e a mia mamma e poi a me la fierezza e la determinazione delle donne.

Grazie al suo esempio ho saputo e potuto sopportare la devastazione della mia vita con integrità e senza perdere il senno. Il suo esempio è stato fondamentale per me, mi ha dato la forza di reagire al “mio perpetuo disordine” e nei momenti di sconforto mi ripetevo: “Sara ce l’ha fatta, ha cresciuto quattro figli da sola, in mezzo a due conflitti mondiali, puoi farcela anche tu!” .

Ora il suo ricordo è suggellato da profondo rispetto ed i suoi occhi vigili e fieri, come quelli di una pantera, mi trasmettono la fierezza. Sono grata a mia nonna, mia mamma per aver trasmesso, attraverso i racconti, come le anziane donne del villaggio, la matrilinearità della famiglia.

Grazie alla piccola ed ossuta Sara ho imparato che nulla è impossibile, basta sapersi reinventare, non lasciando spazio all’autocommiserazione.

foto di Anna Barbi


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COMMENTI

Giada14-05-21 0:48
Una grande Donna ha saputo dimostrare "nei tempi molto duri di quel tempo" un grandissimo coraggio e forza. Sono orgogliosa di questa Donna che ha saputo dimostrare il suo benessere e non quello che gli altri volessero.
Donna Incanto14-05-21 0:54
Giada ti ringrazio. Ho riportato la storia di questa donna proprio per il coraggio che ha mostrato nel tempo in cui ha vissuto. Se fosse stata una donna dei nostri tempi, probabilmente non avrebbe destato alcun scalpore, ma se consideriamo il contesto storico in cui si è svolta la sua vicenda...credo che tutte noi abbiamo da imparare da lei.

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